ebook di Fulvio Romano

lunedì 28 luglio 2014

Quirico: Da Bottecchia a Pantani, quando les italiens scalano la leggenda

LA STAMPA

Sport

Da Bottecchia a Pantani

Quando les italiens

scalano la leggenda

Il romanzo dei nostri Tour, un genere che rinasce sempre

Guardatelo mentre pedala. Sulle rampe è il più calmo di tutti. Ma nella fatica la plastica del suo viso perde ogni frivolezza da giovanotto di sobborgo domenicale siciliano. È un viso rude che si affina e si incide. Volto da eroe quello di Nibali «l’italien», come li modellavano gli scultori antichi, con i capelli chiusi dalla calottina rigida e l’occhio tra scontento e minaccioso.

Come si chiama questo colle? È l’Izoard, il Golgota della bicicletta. Le rupi infisse come torri nel cielo grigio di ghiaie sono una danza di spettri.

L a strada, oggi come al tempo degli altri italiani vincitori del Tour, sta su per scommessa, in un mondo di morte, una catena di pietre secche, senza il lampo di un fiore, una bava di acqua; è un paradiso di lucertole. La montagna è il luogo delle retoriche deboli. Il luogo delle verità nude, e dei miti. I «grimpeur», gli scalatori come Nibali, Bartali, Pantani, sono i soli ciclisti che soddisfano filosoficamente alle condizioni della proposizione vera. Il passista, lo sprinter emergono dalla cacofonia, cercano il guizzo dell’ultimo che parla e ha ragione. Lo scalatore no, lascia il fardello della vita comunitaria, del «peloton», si arrischia, va nel vuoto, vede il cielo attraverso i pedali.

Il primo dei nostri fu Bottecchia. C’è una foto del 1924: sul Tourmalet. Bottecchia sembra immobile, gli occhiali da minatore ficcati nel gran cesto di capelli, il naso spartivento, le grosse ruote della bici come infisse tra i sassi della strada, anzi: della mulattiera. Attorno si affollano paesani, coppole e facce da Fronte popolare, seri, tristi di fronte a quel cristo in bicicletta.

Il Tourmalet l’avevano inventato nel 1910, il Galibier l’anno dopo. Molti allora salivano a piedi, chi non metteva piede a terra diventava un eroe per provare il passaggio in vetta si stampava sul braccio l’immagine di un’aquila; presa da una serie di tamponi zoomorfi per bambini. L’arte di arrampicare non è una grazia, è un dono. La montagna attira corpi sottili, piccoli uomini diabolici come Bottecchia che afferrano lo spazio dei serafini.

Al traguardo quel giorno il friulano arrivò con venti minuti su Buysse, il suo grande avversario. La rivalità transalpina è storia antica. Le tappe erano di 300 chilometri, con quei colpi in 15 frazioni la Francia era belle che finita. Ci si fermava nelle osterie ingoiando rifornimenti gargantueschi.

Friulano e carrettiere, bersagliere ciclista nella guerra che doveva far finire tutte le guerre, socialista in tempi pericolosi punteggiati di orbace e manganelli. Il primo grimpeur, l’inventore dell’arte, si chiamava René Vietto, ex groom del Majiestic. Aveva inventato la velocità in salita, la posizione in punta di sella, le scarpe con i fori per sentire il vento. Bottecchia gli rubò l’arte, tenne quell’anno la maglia dalla prima all’ultima tappa.

E poi loro: Coppi e Bartali. Ancora l’Izoard, nel 1949. Le auto li seguono a una distanza rispettosa, fanno ai due fuggitivi uno strascico di vento. Nel margine di silenzio Coppi e Bartali ascoltano il loro respiro, sentono il polverio dei tubolari contro la terra, la fatica delle ruote. Le nuvole sibilano tra i pini. Nessuno: la scena è vuota. Niente aria di arena, di mattanza, di allegria stonerebbe, non li sopporterebbe.

Bartali con il suo naso di boxeur, le spalle larghe da muratore ha già vinto due Tour, nel ’38 e poi l’anno prima. In mezzo ci sono la guerra e la pugnalata alla schiena e le privazioni. La salita di Bartali è tutta incisi e parentesi, una sequela di scatti, una salita a zampate: uno due tre colpi per saggiare l’avversario. Sembra che non feriscano e l’avversario invece sanguina. Bartali il pio, l’adoratore della Madonna, un po’ superstizioso, non usa forse un cambio Victoria che manovra come un acrobata? Ha inventato lo sprint d’altura, spinge un 48x23 da sterratore.

Oggi scopre che Coppi è più forte, quel ragazzo che lo aveva a vent’anni già scavalcato con fanciullesca arroganza sotto la pioggia sulla salita dell’Abetone, al Giro. La leggenda vuole che lo implori, l’altro: «Dai, oggi è il mio compleanno a me la tappa, a te il Tour…». Fu così, accordo o verità, Bartali primo a Briançon, Coppi primo a Parigi. Con undici minuti di vantaggio tanto che gli organizzatori per evitare il monologo aumentarono il premio al secondo. Fausto rivinse nel ’52, con il suo fisico da don Chisciotte moderno «sempre senza mai sorridere - come diceva Orio Vergani - quasi non credendo mai totalmente in se stesso».

E poi Nencini 1960, la generazione dopo quella dei giganti, la generazione di mezzo, auree mediocrità, mentre l’Italia imparava a conoscere il boom, la televisione e il frigorifero (Coppi l’aveva regalato alla madre dopo una vittoria al Tour, lei lo utilizzava come armadio). È un toscano di Bilancino, quattro case e l’aria buona; uno nato corridore. Il padre voleva avviarlo alla sua professione di sensale di bestiame, e lui niente, Bartali e la bicicletta le sue fissazioni. È un gran discesista. Rovescio della salita, la discesa è un’ubriachezza, un simbolo anche lei, quello della Caduta. I discesisti flottano sul pericolo, guardano lontano davanti a sé, non usano le mani, disegnano in testa la traiettoria della curva e la seguono come un teorema matematico: ecco è fatta, sotto un’altra. A cento all’ora.

Cinque anni dopo Gimondi: quel Tour non doveva farlo, aveva arrancato, da gregario, il Giro, troppa fatica, risparmiatelo, è una promessa! Ma un compagno della Salvarani si ammala e lui, obbediente, va. Regolare, paziente: in pianura, in salita, a cronometro, il sorriso timido stampato in faccia. Batte l’idolo locale Poulidor, personaggio tragico, eterno secondo che nel ciclismo è come il coro della tragedia greca, aveva conosciuto Anquetil che lo aveva reso celebre umiliandolo. Cercava un varco nella epopea, e Gimondi era là... Ne avrebbe vinti altri, forse, il bergamasco, se non ci fosse stato un belga, di nome Merckx che non lasciava niente sotto le sue ruote.

E poi Pantani, il 1998. Anni scuri, anni del doping, il ciclismo dei contraffattori, degli alchimisti dove tutto è permesso: le bugie, i profitti, le infusioni. Che vanifica qualsiasi letteratura, qualsiasi leggenda. Eppure è sempre per i fianchi dei Pirenei e delle Alpi che ci si arrampica e quella vittoria è rimasta singolarmente intatta, gli scatti, gli avversari seminati uno dietro l’altro, un’ultima occhiata mentre si alzano di sella, mentre piegano il collo sul manubrio nello sforzo di perder meno terreno possibile. Doping o no, è sempre il dannato mestiere, la fatica da galeotti, gli spasimi da fachiri, uno spettacolo talvolta crudele che, finita l’epoca dei suiveurs, la tv ti porta in casa. Spettacolo talora orrendo da ricoprire pietosamente sotto il mantello della retorica.

È vero: il ciclismo non è uno sport, è un genere: come la tragedia classica e il romanzo. Prende come loro la misura del mondo e i suoi eccessi. I generi declinano, spariscono. E rinascono sempre.

DOMENICO QUIRICO


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