ebook di Fulvio Romano

domenica 3 agosto 2014

Belpoliti: il corpo insepolto di Pantani

LA STAMPA

Cultura

Il corpo

insepolto

di Pantani

È come se si fosse rotta la gigantesca biglia che lo tiene chiuso in maglia rosa nel monumento davanti al centro direzionale Mercatone Uno di Imola, e d’improvviso fosse tornato a correre, naturalmente in salita, con la benda sul capo, quella che gli ha assegnato l’immortale soprannome de «il Pirata». Sale Pantani con il suo corpo sottile, filiforme, come se fosse attirato da una forza irresistibile, e scende con la pancia appoggiata al sellino a inverosimile velocità, come si fa quando si vuole compiere un gesto inatteso, una bravata da ragazzi. Un ragazzo, un eterno ragazzo, questo è Pantani, anche quando esce tra i carabinieri – è il Pinocchio di Chiosti, indimenticabile illustrazione da sussidiario – quel maledetto giorno di giugno del 1999 a Madonna di Campiglio, dove gli hanno trovato il valore dell’ematocrito fuori norma. Il corpo di Pantani è uno dei corpi insepolti della storia italiana, alla pari di Pier Paolo Pasolini, come ha scritto una volta il poeta Gianni D’Elia, corpi che anche da morti continuano a far problema, e gettano un’ombra inquietante sul passato recente. Pantani è tutto nella testa, nel capo rasato, nel viso glabro, da bambino. La testa e poi gli occhi, scuri e penetranti, la barba con il pizzetto e i due orecchini dorati di lato, sulle orecchie, un po’ a sventola. Un provinciale, neppure troppo bello, timido, guascone quanto basta, sincero. In lui gli italiani hanno visto la vittima sacrificale, il campione troppo bravo ed eccentrico, ribelle e indomito, quasi un artista. Artista del pedale, dato che il ciclismo è un’attività fondata sul talento, come quello di un pittore o di uno scultore: o ce l’hai o niente da fare. Salito agli onori delle cronache sportive in modo quasi improvviso, altrettanto improvvisamente buttato fuori dal cerchio magico del successo. Dagli altari alla polvere. Marco Martinelli, regista del Teatro delle Albe di Ravenna, da due anni porta in giro per l’Italia uno spettacolo in cui racconta la caduta del ciclista romagnolo in un mondo sportivo in grande crisi alla fine degli Anni Novanta, testo teatrale molto bello, Pantani, costruito intorno al libro di Philippe Brunel, Gli ultimi giorni di Marco Pantani (Rizzoli), inchiesta arricchita da Martinelli con dettagli umani e particolari inquietanti. La personalità del ragazzo di Cesena è nello spettacolo il capro espiatorio di una tragedia annunciata. Pantani era e resta un mito per la gente comune. Un eroe sacrificato a qualche superiore necessità, in cui ci s’identifica per la sua semplicità, ancora prima che per l’eccellenza, il carattere impulsivo e l’immediatezza del dire e del fare. Gli eroi fanno sognare, e Pantani ha continuato a farlo nonostante la storiaccia finale, la morte per overdose di cocaina, una morte anche questa vissuta da moltissimi come emblematica. La sua solitudine è apparsa subito come uno stigma della sua diversità: solo in salita, a macinare chilometri e a conquistare tappe, solo nella stanza del residence a morire come un artista «maledetto», un cantante rock, come uno degli eroi «positivi-negativi», che hanno preso il posto di quelli tradizionali in un mondo che, nonostante tutto aspetta ancora Giustizia, quella divina naturalmente, cui Pantani, come ogni vero eroe, apparteneva, perché di quella degli uomini tutti dubitano, probabilmente da sempre.

Marco Belpoliti


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