ebook di Fulvio Romano

sabato 23 agosto 2014

La scomparsa delle lucciole: da Pasolini il titolo di una grande esposizione ad Avignone

LA STAMPA


Cultura

Le lucciole sparite ad Avignone

C’è un rapporto ambivalente delle opere d’arte con i luoghi in cui vengono esposte: sempre in bilico tra l’essere esaltate o, al contrario, ridimensionate da un ambiente particolare, troppo forte o carico di significato. Una dinamica evidente non soltanto quando si tratta di musei che dovrebbero essere costruiti appositamente per accogliere arte e, invece, costituiscono sempre più spesso un intralcio alla visione, ma anche quando si ha a che fare con luoghi carichi di storia. È il caso della Prigione Sant’Anna di Avignone dove, per fascinazione e necessità, il direttore della Collection Lambert, Eric Mézil, ha orchestrato una sontuosa esposizione ispirata ad un celebre articolo di Pier Paolo Pasolini. La disparition des Lucioles fa infatti riferimento allo scritto che Pasolini pubblicò sul Corriere della Sera nel 1975, nel quale identificava la scomparsa di questi minuscoli insetti luminosi con il parallelo disgregarsi della società contadina, della cultura più autentica e del progressivo spogliamento della natura. Una metafora talmente potente da potersi trasportare, quasi quarant’anni dopo, alla situazione attuale dove, tra «ritorni al verde» e modernità liquida, il processo sebbene avanzato, è ancora in atto.

Con il pensiero dunque alle ultime lucciole capaci di illuminare la nostra notte, si entra in questa prigione costruita nel XVIII secolo proprio a ridosso del palazzo dei Papi, e abbandonata appena dieci anni fa. Soltanto un decennio per cancellare secoli di storia, troppo poco, e infatti ciò che colpisce è innanzitutto la presenza ancora tangibile dei detenuti, uomini e donne che hanno occupato le celle. E dunque celle, corridoi, cortili in un continuum serrato e a tratti commovente in cui diversi temi sono individuati ed espressi attraverso le opere di moltissimi artisti, in gran parte raccolti da Enea Righi, straordinario collezionista italiano che stupisce per la sua assoluta visionarietà. Da Adel Abdessemed a Chen Zhen, passando per Francis Alÿs, Jean-Michel Basquiat, Joseph Beuys, Marcel Broodthaers, Guy de Cointet, Anna Gaskell, Mona Hatoum, Candida Höfer, Jenny Holzer, Richard Long, Francesco Vezzoli, Franz Erhard Walther, Andy Warhol, Ai Weiwei, Rémy Zaugg, sono più di cento gli autori e 556 le opere, chiamati ad evocare il tempo nelle sue forme più differenti, la solitudine, l’isolamento, la difficoltà di non sentirsi un numero o forse, il desiderio di diventarlo. Artisti naturalmente molto lontano tra di loro, le cui sensibilità però ben si adattano ad instaurare un dialogo con gli spazi claustrofobici e quelli collettivi e soprattutto con il ricordo delle persone che li hanno abitati. Che sono comunque talmente forti e presenti da condizionare chi guarda coinvolgendo in una nuova interpretazione i lavori in mostra. Probabilmente per esempio, il Self-portrait as Antinous Loving Emperor Hadrian, di Francesco Vezzoli, due busti in marmo che ritraggono l’ideale dei due celebri amanti raccontati da Marguerite Yourcenar . L’installazione dell’artista americana Kiki Smith in cui una giovane donna seduta è sormontata da un grande masso sospeso e assume immediatamente l’idea di una struggente, tangibilità incomunicabilità.

Più diretti i lavori di Douglas Gordon, una fotografia con un uomo di spalle che nello specchio mostra un tatuaggio quanto mai esplicativo, Guilty, colpevole. O del polacco Miroslav Balka che sottolinea una finestra con le sbarre attraverso un’installazione di fili di plastica bianchi intrecciati: una rete insomma simile a quella di una porta di calcio che perde ogni accento ludico per trasformarsi in una metafora della costrizione. Ed è sempre di Balka una delle installazioni più riuscite della mostra. Intitolata Heaven si trova all’esterno e si tratta di molte, piccole eliche che riflettono la luce e si muovono con il vento. Sembrano pronte a prendere il volo, ma c’è una rete in alto ad impedire il loro movimento. Ancora una volta, a sorprendere in Balka è la capacità di ottenere un forte effetto emotivo con un dizionario davvero limitato.

Come sempre sospesi tra ironia e inquietudine i lavori dell’austriaco Markus Schinwald tra gli artisti più interessanti in circolazione, che cerca quadri antichi da dipingere, riuscendo con inserimenti sapienti e raffinati ad aggiungere suspense, sino a cambiarne nettamente il significato iniettando particolari rimossi e dettagli onirici. C’è Ivy, per esempio, che potrebbe essere un volto di donna qualunque, con lo sguardo perso e un po’ feroce, ma un rete quasi impercettibile le serra come un ricamo la parte inferiore, creando un’ennesima gabbia.

Elena del Drago


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