ebook di Fulvio Romano

mercoledì 12 agosto 2015

Quirico; I bagnanti e i naufraghi nella Grecia senza più ciclopi né sirene

LA STAMPA

Italia

Sulle spiagge di Ulisse dove l’indifferenza si mescola a pietà e diseguaglianza

Disteso sulla sabbia umida , apre gli occhi e vede il cielo. Null’altro che il cielo! Sotto di lui la carne esangue della terra che vive ancora la vita delle acque. Il perfido mare ulula dolcemente, ora. Una stessa inquietudine turba il cielo e il mare: schiume e nuvole bianche come spume. Risuonano calpestii di piccoli piedi e poi esclamazioni così umane che sembrano fiorite. Le voci si librano sopra il suo corpo, parole che non comprende, solleva le palpebre: è circondato da un cerchio di gambe nude. Balza su, si mette in ascolto, come tutti i perseguitati è subito completamente sveglio, pronto e teso alla fuga.

È il naufragio di Ulisse, il pellegrino fabulatore in una Grecia ancora di Ciclopi e Sirene. Ed è il naufragio dei migranti, nel nostro tempo senza eroi, sulle spiagge delle isole greche che paion vecchie navi arenate, i muri alti e cadenti. Davanti al mare, dio eterno di gioia e tribolazione, alla sua carne liquida si incontrano i turisti e i fuggiaschi, accostamento che nella sua assoluta insensatezza annulla l’insensatezza di quelle esistenze sradicate. Nulla profuma, ahimè, dell’aroma limpido del mito antico un poco misterioso e di chiarità mediterranea. Il popolo fugace delle vacanze si china non ostile, talvolta pietoso, sull’approdo sfinito degli altri, il popolo permanente dell’Esodo. E questo è bene. La vera pietà forte e dolce e l’infantile paura che si prova per le sofferenze altrui. Vorrei di più: che avessero il coraggio di essere tristi di fronte alla vista di quegli altri esseri umani, ne hanno il diritto. Gli oggetti che portano addosso, un sacchetto con un ricambio, talvolta un telefonino. Un essere umano, un intero essere umano: il suo corpo i suoi capelli gli occhi! Gli antichi eroi greci piangevano più spesso di una adolescente di oggi. Sapevano che la tristezza non li abbassava agli occhi degli altri.

Noi e loro: quelli che la gioia la possono cogliere senza fatica, basta che si sporgano nella vacanza; e loro che si sono dovuti insanguinare a mille spine per arrivare a quella rena. Conosco il migrante e come l’oscurità, l’ignoto, la paura lo accompagni e come perso tra queste solo, zoppicante, stanco, viva con il desiderio di trovarsi tra gli altri uomini e contemporaneamente con la paura degli altri uomini nella sua piccola e miserevole vita. Anche su quelle spiagge, tra gli ombrelloni e le grida dei bimbi come in una spuma di suoni.

I bagnanti e i «clandestini». Il loro sangue ha la stessa temperatura, i loro occhi hanno la stessa costruzione, i loro nervi reagiscono alle stesse emozioni, i loro pensieri corrono lungo le stesse linee; e tuttavia li separa un abisso. Nulla vi è di simile nelle loro due esistenze: il benessere dell’uno significa la disperazione dell’altro. Sono l’uno padrone del paradiso, l’altro servo scacciato e fermato sull’uscio. E quell’abisso è soltanto un piccolo pezzo di carta si cui nient’altro è scritto che un nome e un paio di indicazioni senza importanza: italiano francese inglese o siriano sudanese maliano tunisino… Vedo capi chini, volti in cui è la paura ancora del viaggio e la stupefazione della salvezza solo temporanea, vedo dolore, disperazione. E nello stesso tempo bimbi abbronzati e felici, fanciulle in fiore, famiglie serene nel riposo e nell’incanto del mare. Roba per gente con l’avvenire assicurato. Penso a tanti altri luoghi che ho visto gremiti di gente scacciata, la cui unica colpa era di essere nata e di vivere. E tutto questo mentre esiste pure nel mondo, per fortuna, la musica di questa nostra isola felice. Un infinito conforto e nello stesso tempo un terribile scherno.

C’è una sorta di beffarda catarsi storica nell’essere la Grecia il nuovo punto di sbarco della Grande Migrazione: il Paese più malato di una Europa litigiosa, spaventata e meschina, Grecia a rischio di esser cacciata per la colpa della povertà dal paradiso dei forzieri pieni e dei conti a posto. Cantiamo le delizie e le meraviglie dell’Unione e sono voci ridicole: cantiamo la libertà in un mondo pieno di campi di concentramento, di guerre livide, di folle impaurite, silenziose e miserabili.

Domenico Quirico