ebook di Fulvio Romano

lunedì 21 agosto 2017

Illy: “Bonus sbagliati Non bisogna penalizzare i lavoratori più vecchi”

LA STAMPA

Italia

Illy: “Bonus sbagliati

Non bisogna penalizzare

i lavoratori più vecchi”

L’imprenditore: giù le tasse e risorse all’Università 

Non vorrei che il governo proponesse un gioco a somma zero, in cui si vuole incentivare l’occupazione giovanile penalizzando le altre fasce d’età». Secondo Riccardo Illy, presidente del Gruppo Illy, la strada per aumentare l’occupazione, anche giovanile, è un’altra e passa «da maggiori risorse al sistema delle Università» per avere più competenze da spendere sul mercato del lavoro e da «una decisa diminuzione della tassazione delle imprese» portando l’aliquota Ires al 20% «come sta avvenendo un po’ ovunque».

Perché giudica sbagliati nuovi incentivi per assumere i giovani? «Perché mi sembra poco giustificabile, da un punto di vista etico ed economico, mettere in concorrenza lavoratori di età diverse. Esiste già un’incentivazione implicita ad assumere giovani: con i nuovi contratti il dipendente anziano costa di più. Molte imprese - non certo noi - usano già tutti gli strumenti disponibili per ringiovanire le fila aziendali. In genere la motivazione è che il giovane lavoratore è più aggiornato, più motivato, più preparato. Ma spesso il vero motivo è che il giovane costa semplicemente meno».Nuovi incentivi alla loro assunzione non servirebbero? «Temo non sortirebbero grandissimi effetti: l’incentivo, come dicevo, esiste già. In più si rischierebbe di aggiungere nuova complessità e burocrazia». E allora come si combatte la disoccupazione tra i giovani? «Come indica l’Istat la disoccupazione giovanile non è omogenea: tra i laureati è a un livello basso, fisiologico. Il punto è che le imprese assumono chi ha una qualifica utile. E la media dei laureati in Italia è la metà di quella dei Paesi occidentali». Dunque? «Anziché tagliare come si è fatto negli ultimi 20 anni, con l’eccezione di Renzi e Gentiloni, forse una misura utile è dare più risorse al sistema universitario, e dare una decisa sterzata sulla percentuale di laureati che dobbiamo avere nel Paese. Soprattutto con l’avvento dell’industria 4.0, dell’intelligenza artificiale, della robotica. Non è certo di una manodopera poco qualificata che si ha bisogno nel manifatturiero. Ma il punto è anche un altro». Quale, dottor Illy? «In Italia c’è un problema di occupazione generale, non solo giovanile. E per aumentare l’occupazione bisogna aumentare la domanda, che sta crescendo in maniera insufficiente, e occorrono più investimenti privati da parte delle imprese, che sono ancora sotto i livelli pre crisi del 2007». In questo caso quale potrebbe essere l’incentivo per convincere le imprese ad accelerare il passo? «Va dato merito agli ultimi governi di aver già ridotto il carico tributario per le imprese, ma servono ulteriori tagli. Io sto a Trieste, mi basta fare un paio di chilometri per vedere, in Slovenia, imprese che pagano il 25% senza Irap. Da noi si potrebbe portare l’Ires al 20%, livello a cui tendono quasi tutti i Paesi. Ciò comporterebbe due effetti: più investimenti oppure maggiori dividendi, ma in tal caso lo sconto fatto alle imprese si recupererebbe da chi paga l’imposta per tali guadagni extra. Sarebbe comunque il modo migliore di aumentare l’occupazione, giovanile e non solo». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

francesco spini


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domenica 20 agosto 2017

Agosto 1917, i cinque giorni che sconvolsero Torino

LA STAMPA

Cultura

Agosto 1917, i cinque giorni

che sconvolsero Torino

Assalti ai forni, saccheggi di chiese, fabbriche occupate: con la rivolta

delle classi popolari per il pane e contro la guerra, la città incontrò il suo ’900 

Torino scese in piazza per il pane e contro la guerra. È passato un secolo da quelle giornate dell’agosto 1917 e della rivolta che per cinque giorni sconvolse la città non è rimasto niente, nemmeno il ricordo. Si era nel pieno della Prima guerra mondiale e la stanchezza dello sforzo bellico si faceva sentire, non solo da noi. C’era stato l’appello di papa Benedetto XV contro «l’inutile strage»; dalla Russia erano rimbalzati gli echi vittoriosi della rivoluzione guidata da Lenin; sui fronti della Somme i soldati si erano ammutinati e avevano disertato in massa; alla fine di ottobre, a Caporetto, ci sarebbe stata la disastrosa sconfitta italiana. In città, il 13 agosto, 40 mila persone si erano radunate davanti alla Casa del Popolo, in corso Siccardi, per ascoltare, entusiasti, i rappresentanti dei soviet russi. Il clima era tale che bastava una piccola scintilla per innescare un grande incendio.

A Torino, a causa dell’esaurimento delle scorte di farina, mancava il pane. E le donne del popolo, per prime, guidarono i saccheggi per prenderselo. Tutto avvenne in modo tumultuoso e, all’inizio, spontaneo.

«Vogliamo la pace!»

Alle 9 del mattino di mercoledì, 22 agosto, il prefetto diede l’annuncio che per quel giorno le panetterie non avrebbero aperto; già a mezzogiorno gli operai dell’arsenale di via Caserta uscirono dalla fabbrica per raggiungere le loro donne che protestavano per le strade dei rioni periferici. Davanti alla fabbrica automobilistica Diatto, in Borgo San Paolo. padroni e operai si confrontarono da vicino: «Non abbiamo mangiato, non possiamo lavorare, vogliamo pane…»; «Avete ragione, avete ragione…», rispose Pietro Diatto, «però entrate in fabbrica e non fate sciocchezze. Ve lo dico per il vostro bene e per il bene delle vostre famiglie». Gli operai tacquero un istante. Proprio solo un istante e si guardarono negli occhi, l’uno con l’altro, quasi a consultarsi tacitamente, e poi, tutti insieme, ripresero a gridare: «Ce ne infischiamo del pane. Vogliamo la pace! Abbasso i pescicani, abbasso la guerra!».

Ci furono i primi scontri, i primi morti. Il 23 agosto fu proclamato lo sciopero generale e la situazione precipitò in un conflitto sanguinoso e generalizzato. Mentre squadre di borghesi armati si affiancavano alle forze dell’ordine, gli operai si scatenavano scegliendo gli obiettivi di una rabbia troppo a lungo repressa: fu saccheggiato il caffè Ligure, in piazza Carlo Felice, notissimo ritrovo di aristocratici e interventisti; furono incendiate due chiese, quella di San Bernardino, in Borgo San Paolo e quella della Madonna della Pace, in Barriera di Milano; i quartieri popolari si affollarono di barricate, alcune improvvisate, altre inespugnabili, come quelle di corso Vercelli angolo via Carmagnola, e di corso Principe Oddone angolo corso Regina Margherita. 

41 morti, 150 feriti

Il 24 agosto i tumulti si accesero anche in Barriera di Nizza; ma il centro cittadino, piazza Castello e via Roma, si rivelò inaccessibile per i dimostranti: il corteo più numeroso e agguerrito, quello che veniva da Barriera di Milano, lungo la direttrice che da corso Vercelli porta in piazza Statuto e via Garibaldi, si infranse tra Porta Palazzo e via Milano contro un insuperabile sbarramento di polizia, esercito e carabinieri. Il 25 agosto il movimento cominciò a rifluire su sé stesso e la fiammata si spense con la stessa improvvisa rapidità con cui si era accesa. Domenica 26 agosto era tutto finito, le barricate distrutte, le forze dell’ordine di nuovo a controllare i rioni periferici. Alle giornate di lotta seguì una lunga scia repressiva, il tribunale emise quasi 900 mandati di arresto e si contarono, secondo le stime più attendibili, 41 morti e 150 feriti.

Gli assalti ai forni, le fabbriche occupate, gli incendi e i saccheggi di alcune chiese avevano proposto forme di lotta insieme arcaiche e moderne, innescando comunque un protagonismo collettivo che attraversò i rioni cittadini come una febbre. Quando ormai la mobilitazione di piazza era un dato di fatto, erano intervenute anche le organizzazioni di quello che allora si chiamava «movimento operaio»: i socialisti nelle loro variegate anime, riformisti e massimalisti, legalitari e rivoluzionari; gli anarchici del Circolo operaio; i sindacalisti della Camera del Lavoro ecc.

Un irriducibile conflitto

Oggi, un secolo dopo, si può dire che in quei giorni Torino incontrò il suo Novecento, un secolo che, con le ciminiere delle fabbriche, ha segnato le asprezze del paesaggio urbano e la coscienza e l’intelligenza degli uomini: un impasto di razionalismo cartesiano e di austerità calvinista; un insieme di virtù tipiche, la tenacia, la pazienza, la laboriosità; e, infine, protagonisti sociali identificati nelle due figure contrapposte dell’«operaio di mestiere» e dell’«imprenditore capitalistico», collocate in uno scenario di macchine e spolette, caserme e filatoi, automobili e divise militari. Per 80 anni, l’universo politico e economico della città ha ruotato intorno a queste due figure che, separate nel cielo della politica e protagonisti di un irriducibile conflitto economico e sociale, hanno invece contribuito insieme a fissarne i tratti identitari più profondi.

Tra borghesia e proletariato c’è stato, come scriveva Gramsci, un antagonismo puro, liberato da tutte le scorie medievali e precapitalistiche. Per questo Torino era «anormale» rispetto al resto d’Italia. Se Gobetti tentava di cogliere tutte le opportunità conoscitive racchiuse in quello straordinario laboratorio sociale, alimentando la ricerca di un nuovo liberalismo in grado di dialogare in modo ravvicinato con la modernità espressa dalla classe operaia, sul versante opposto Gramsci cercava, nella concretezza dei comportamenti in fabbrica, l’antidoto al dogmatismo esasperato del leninismo. Entrambi apparvero immediatamente minoritari, destinati alla sconfitta: il liberalismo rivoluzionario di Gobetti non ebbe nessun peso nell’area della tradizione liberale; le tesi consiliari di Gramsci furono subito sconfitte all’interno del Pci.

Si può dire che l’operaismo come riferimento esistenziale sia vissuto molto più a lungo delle teorie politiche che aveva ispirato. Oggi, tra le sue macerie, si trova ancora una certa residua insofferenza degli intellettuali italiani verso una tradizione culturale torinese, vista come un ingombrante fardello di cui occorre sbarazzarsi al più presto.

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Giovanni De Luna


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lunedì 7 agosto 2017

Giorni più freschi e bagnati, bello da venerdì a Ferragosto

LA STAMPA

Cuneo


Giorni meno caldi
In arrivo piogge
e rischio grandine
Fulvio Romano


I primi cinque giorni di agosto sono riusciti nell’impresa di superare anche i record del 2003. Sono stati, infatti, almeno tre su cinque i primati delle temperature massime conquistati quest’anno nel finale della scorsa settimana. Record storici, ma nelle notti d’inizio agosto di 14 anni fa si era boccheggiato anche di più. 
Da ieri il clima del Nord Ovest cambia registro, per una settimana almeno e forse più. L’anticiclone africano è stato indebolito ieri dal sopraggiungere di una prima offensiva atlantica che ne ha scalfito il dominio. I temporali specie a Nord e a Sud della regione hanno fatto precipitare le temperature, riportandole quasi ovunque sugli standard abituali del periodo. Se finora agosto ci aveva fatto ribollire con temperature medie di sei gradi in più rispetto alla norma, tra oggi e giovedì, grazie alle ripetute ondate occidentali, il calo sarà costante nelle minime e nelle massime. 
Poi da venerdì a domenica, con la ripresa dell’alta pressione, ma questa volta più azzorriana e quindi secca e temperata, i cieli sereni e le temperie gradevoli ci riporteranno - fino a Ferragosto - alla migliore immagine dell’estate, calda ma non afosa.
Da qui a venerdì, invece, nuvole da Est oggi, rovesci in prevalenza alpini domani sera e, tra mercoledì e giovedì, temporali con piogge e pericolo di grandine.

romano.fulvio@libero.it

mercoledì 2 agosto 2017

le regole per il premier che verrà

LA STAMPA

Cultura

le regole

per il premier

che verrà

C’è un modo efficace per far credere all’opinione pubblica che una affermazione sia vera, anche se è del tutto falsa: quello di ripeterla ossessivamente e, per di più, con il tono di chi ribadisce un’ovvietà contro la quale nessuno potrebbe obiettare. Cultori assidui di tale trappola propagandistica sono, in questi giorni, soprattutto i leader di quei partiti che ambiscono al primo posto nella classifica delle prossime elezioni, Pd e Movimento 5 stelle. Costoro sostengono che spetti a chi guida la formazione politica che abbia raccolto più voti la poltrona di Palazzo Chigi. 

Peccato che questa tesi, irrefutabile in un sistema maggioritario, sia, in modo altrettanto irrefutabile, clamorosamente sbagliata in quello proporzionale. Nel primo, è affidato direttamente ai cittadini il compito di indicare il capo del futuro governo, nel secondo, sono i partiti che segnalano al presidente della Repubblica chi è in grado di raccogliere su di sé i consensi della maggioranza nei due rami del Parlamento.

La storia della nostra Repubblica, del resto, è troppo recente per essere dimenticata dai nostri fintamente smemorati leader. Nel sistema proporzionale, in vigore dal dopoguerra fino alla «rivoluzione maggioritaria», chiamiamola così, degli Anni Novanta, Craxi governò il Paese con circa l’undici per cento dei voti ottenuti dal Psi e, addirittura, Spadolini inaugurò le presidenze «laiche» del Consiglio con il tre per cento di consensi al suo partito, quello repubblicano.

Al contrario, Berlusconi e Prodi si alternarono a palazzo Chigi in virtù della maggioranza relativa ottenuta da uno dei due schieramenti di cui erano i leader.

Ecco perché con l’unico sistema di voto che la Corte Costituzionale ha reso praticabile e che i nostri partiti, nonostante i ripetuti appelli di Mattarella, non sono riusciti a modificare, quello spiccatamente proporzionale, la regola del «chi arriva primo, governa» ha il fascino della semplicità, ma il difetto di non avere i requisiti per raggiungere l’obbiettivo, cioè la maggioranza in Parlamento.

I leader dei partiti più grandi potrebbero sicuramente rendere valida tale regola con una intesa che riformasse in senso maggioritario il sistema elettorale risultante dalla sentenza della Corte. Tutti, esperti sondaggisti, acuti commentatori, saggi politici si proclamano allarmati dal rischio di una assoluta ingovernabilità dell’Italia, nella prossima legislatura, proprio a causa di un meccanismo di voto proporzionale applicato a un assetto sostanzialmente tripolare della nostra politica. Un futuro che, nell’ipotesi migliore, quella che potrebbe evitare un immediato ritorno dei cittadini al voto, vedrebbe un governo debolissimo, condannato all’immobilismo dai contrasti tra due schieramenti costretti a stare insieme per raggiungere più del 50 per cento dei voti in Parlamento, ma con visioni e programmi del tutto diversi.

Una prospettiva davvero funesta in questi tempi assai difficili per una Italia con una posizione molto scomoda: dal punto di vista geografico, perché ponte troppo affollato tra Africa ed Europa, da quello economico, perché fanalino di coda nella ripresa continentale, da quello politico, perché non più importante Paese di frontiera nella sfida tra Ovest ed Est del mondo, ma nazione che rischia l’irrilevanza strategica nei nuovi equilibri internazionali.

In queste condizioni, l’Italia ha bisogno di governi stabili, guidati da leader la cui autorevolezza nasca soprattutto da consensi elettorali ampi da parte dei cittadini. Se la nostra classe politica ritiene, com’è ragionevole, che questo risultato si possa ottenere con un sistema maggioritario, lo approvi. Se non è capace, o non vuole farlo, truccare le regole non vale.

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Luigi La Spina


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