ebook di Fulvio Romano

sabato 30 settembre 2017

La Torino romana

LA STAMPA

Cronaca

Da via Garibaldi a piazza Castello

A caccia dei tesori nascosti

nei parcheggi o tra i negozi 

Via Garibaldi angolo via della Consolata: qui si trovava la Porta Decumana (Segusina) della Torino romana. Oggi, in realtà, non c’è più, è rimasta la denominazione che poi darà il nome all’area e all’attuale stazione: Porta Susa. E in quel punto è rimasta anche una curiosa pietra. Sembra una tomba con una catena intorno: è utilizzata come rastrelliera per le bici e chiusa da una lastra di granito. Pensare che fino a una ventina di anni fa c’era un vetro, una sorta di «spioncino» per ammirare le mura di Emanuele Filiberto addossate a quelle del I secolo di età imperiale. Le vestigia della città romana si possono invece scoprire (meglio) nell’atrio di Palazzo Madama, sotto il pavimento in cristallo. Qui si trova ancora oggi la Porta Fibellona. Non si vede bene, è stata inglobata in duemila anni dalla costruzione del castello prima e del palazzo poi. Sono tanti i luoghi della Torino romana un po' dimenticati o non bene valorizzati, in alcuni casi sono anche in buone condizioni ma «occultati» in siti difficili non così a portata di vista. Se le antiche mura si riescono facilmente a individuare, ad esempio, nei pressi della Porta Palatina e in via Egidi, altre parti vanno cercate nel piano ipogeo del Museo Egizio, oggi diventata la biglietteria, oppure in vari parcheggi sotterranei, come in quello di piazza Emanuele Filiberto o di via Roma, dove può capitare di parcheggiare l’auto accanto a un reperto archeologico. Il punto esatto del passaggio delle mura romane è anche segnato sulla lastricatura di piazza Castello, tra Palazzo Madama e la fermata Gtt lato via Accademia delle Scienze. Basta farci caso: è una vera chicca. Bisogna avere un occhio attento. Per vedere dove terminava la città a sud-ovest basta posizionarsi in via Santa Teresa angolo via San Tommaso. Qui c’era la Porta Marmorea. Non cercatela, non esiste più. La città romana era tutta lì: Museo Egizio e corso Siccardi a sud, Museo di Antichità e Basilica della Consolata a nord. Proprio alla Consolata, all’angolo via Giulio, si trova ancora il basamento della torre angolare della cinta muraria. Visibile senza problemi, in questo caso, come tutta l’area del Parco Archeologico delle Torri Palatine. Punto d’incontro delle due Torino, quella romana e quella di oggi, è piazza Palazzo di Città dove all’epoca c’era il Foro, cioè il centro politico della città. La funzione è rimasta immutata in duemila anni.

I più sedentari possono invece fare un tour virtuale di Augusta Taurinorum nel Museo di Antichità che conserva pezzi di mosaici, pavimentazioni (come quella rinvenuta nel 2003 sotto il parcheggio Santo Stefano), epigrafi e vasellame: tra questi, la bellissima tazza in ceramica di età imperiale rinvenuta nello scavo di via Mercanti 17.

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andrea parodi


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Il Tenco scalda i motori..

LA STAMPA

Imperia

Teatro a Imperia

Al Guernica

le debolezze

dell’Uomo

Appuntamento con il teatro questa sera all’Arci Guernica di via Mazzini 15, a Borgo Fondura di Imperia. Sul palcoscenico ci saranno Marta La Veneziana e Salvatore Stella in «Pot pourri», che sono anche autori dei testi.

Lo spettacolo avrà inizio alle 22 e sarà preceduto alle 20 da una cena di finanziamento al costo di 12 euro.

I due attori in scena raccontano attraverso brevi monologhi le debolezze dell’essere umano passando da personaggi immaginari all’apparenza slegati tra loro, ma uniti dalla stessa voglia di riscatto così la strega Grimilde, storica «avversaria» di Biancaneve, si confronta con la Portinaia Apollonia anche lei vista come una strega da un bambino in tempo di guerra, oppure il delirio di un uomo «malato» di puntualità con la forza della speranza di Penelope e della sue fedele attesa raccontata da una stramba lettrice, per finire con un originale e imprevedibile Otello. È una rappresentazione «in bianco e nero», basata sulle contrapposizioni. [e. f.]

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Centocinquantamila galline abbattute e incenerite nel Cuneese del Fipronil

LA STAMPA

Cuneo

Il direttore della Prevenzione dell’Asl Cn1: «La fase critica dovrebbe essere alle spalle»

Da abbattere ancora 80 mila galline

Nella Granda già distrutti due milioni di uova a causa del Fipronil: prezzi in su del 35%

Una strage. Centocinquantamila galline già abbattute, altre ottantamila saranno uccise a partire da lunedì. E due milioni di uova mandate in distruzione, soltanto nella Granda. Sta assumendo dimensioni catastrofiche lo scandalo Fipronil, insetticida tossico, usato in veterinaria contro i parassiti degli animali domestici, vietato dall’Unione Europea negli allevamenti di animali della catena alimentare. In provincia di Cuneo, ieri è salito a sei il numero degli allevamenti dov’è stata accertata la contaminazione, dopo l’esito positivo dei controlli interni che, con ogni probabilità, saranno confermati dall’Istituto Zooprofilattico di Torino. Si tratta di aziende di Cuneese, Fossanese, Monregalese e Roero (l’ultimo caso), costrette a eliminare gli animali, perché il Fipronil colpisce le ossa e le parti adipose delle galline, che di conseguenza trasmettono la positività anche alle uova. Unica soluzione, la distruzione dell’intera filiera e la bonifica delle stalle. Tutto a carico delle imprese, che spendono in media 80 centesimi per ciascun capo da smaltire: le galline vengono gassificate o elettro-narcotizzate, poi macellate e inviate a smaltimento in un inceneritore.

«Applichiamo alla lettera il protocollo del ministero, che impone la distruzione in caso di infezione - dice Mauro Negro, direttore del dipartimento di Prevenzione dell’Asl Cn1 -. Non risultano altri casi di contaminazione, oltre a quelli già accertati. Siamo in attesa di ulteriori referti su altri prodotti antiparassitari, ma la fase critica, almeno negli allevamenti dell’Asl Cn1, dovrebbe essere alle spalle».

La disinfestazione

Notevoli i costi anche per le operazioni di disinfestazione, e spesso non bastano neppure quattro «lavaggi» per debellare la presenza di Fipronil nelle strutture. Così, se un allevatore che decide di riacquistare una partita di ovaiole (4,50 euro ciascuna) e ricominciare la produzione, rischia di ritrovarsi nuovamente l’intero pollame contaminato.

L’Unione europea ha attivato un monitoraggio aggiuntivo sulle carni bianche e sui prodotti trasformati, destinati all’industria dolciaria. Tecnici dell’Asl e carabinieri dei Nas stanno eseguendo controlli a tappeto su uova, pollame da carne, nei macelli, e ancora su panettoni, biscotti, paste di meliga, dolci. Prima di vendere, ciascuna azienda è costretta ad inviare un campione di merce all’Asl, ma i laboratori sono «intasati» e possono trascorrere anche dieci giorni per l’esito delle analisi. Nell’attesa, la produzione rimane bloccata o nei congelatori. Sul mercato, iniziano a scarseggiare uova e carni bianche di galline a fine carriera e nelle ultime settimane, si è registrato un innalzamento dei prezzi all’origine: le uova sono passate da un costo medio di 1,20-1,30 euro al chilo (circa dieci uova) a 1,60-1,80 euro. Un rincaro del 35% che potrebbe riflettersi anche sui prezzi al consumo. «Mezza dozzina di uova potrebbe costare 2 euro al supermercato - dice un allevatore cuneese -, perché ogni giorno mancano 5 milioni di uova sul mercato italiano. Le galline? Prima dello scandalo, quelle vive a fine carriera costavano 20 centesimi, adesso 75. Quelle macellate sono salite da 1,20 a 2 euro al kg. Due settimane fa macellavo 25 mila galline a settimana, oggi un decimo».

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matteo borgetto


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Il vivaista che cura i malati con i “Giardini terapeutici

LA STAMPA

Cultura

Terapia verde. La prima persona a far riflettere Andrea Mati - quarta generazione con i fratelli Francesco e Paolo di vivaisti a Pistoia - sul benefico effetto del contatto con gli alberi per i malati fu, tanti anni fa, un suo concittadino Giovanni Michelucci, l’architetto-urbanista della stazione di Firenze Santa Maria Novella e della chiesa dell’Autostrada del Sole. «Su un foglio disegnò il suo ospedale ideale: da un corpo centrale s’irradiavano le ali con le stanze dei malati letteralmente sommerse dagli alberi. Un bosco oltre le finestre, altro che cemento e giardinetti», ricorda Mati che, accantonato il sogno di studiare al Conservatorio (ma compone musica) studiava architettura del paesaggio per poi lavorare nell’azienda agricola fondata nel 1909 dal bisnonno, Casimiro. 

Premessa. Nella lunga storia dei Mati, una istituzione del florovivaismo italiano, un posto d’onore va al loro geniale nonno Mario. Durante la guerra di nascosto dai tedeschi piantò migliaia e migliaia di alberelli da frutta che, a fine conflitto, vendette in tutta Europa. «La gente aveva tanta fame. Nonno trasferì la nostra sede a 500 metri dalla stazione; i vagoni carichi di piante andavano al Nord, soprattutto Germania e Francia».

Dagli anni della fame a quelli del disagio. Nel 1986 alla guida del vivaio c’è Miro, terza generazione Mati, quando suo figlio Andrea per ricucire dopo alcune incomprensioni il rapporto con Vincenzo Muccioli si presenta alla Comunità di San Patrignano. Da quel gesto molto apprezzato da Muccioli nasce la trasformazione di una collina di terra dura e fango in una oasi verde. «Vincenzo voleva che i giovani vivessero il più possibile a contatto con la natura. Grazie a Vincenzo, con l’amico Vanni e i ragazzi della manutenzione (molti sono diventati bravissimi giardinieri) abbiamo piantato centinaia di alberi e migliaia di arbusti». Un’esperienza che segna Andrea già volontario alla Caritas di Pistoia. Da fine Anni 90 i fratelli Mati diversificano la loro attività. Nel celebre vivaio (centinaia d’ettari di alberature e conifere e di rare varietà; banditi i concimi chimici) creano «l’Accademia italiana del Giardino» (corsi di formazione per giardinieri e tree climber). 

Non solo. Mentre Francesco diventa presidente dei vivaisti di Pistoia, capitale italiana del verde, Paolo fonda «Toscana Fair» (super ristorante e scenografica location per eventi) e Andrea la coop «Giardineria italiana» (sedi a Pistoia, Siena e Peschiera del Garda) specializzata nella manutenzione. I magnifici giardini delle Ville Medicee, il verde della sede a Parigi di Abercrombie&Fitch e del museo Guggenheim a Venezia, gli alberi per la villa Toscana di Sting e quelli per la casa di Radiconcoli di Luciano Berio («Lui mi parlava di alberi, io di musica»). È un elenco prestigioso quello dei lavori fatti dai Mati spesso collaborando con noti architetti e paesaggisti. «Due nomi su tutti? Paolo Pejrone e Silvina Donvito». Ma quello che ormai appassiona Andrea è curare i più fragili con il verde. Così, con l’amico Luigi Pacossi e la terapeuta Lucia Conti, ha dato vita al vivaio San Pantaleo per il recupero di ragazzi con dipendenza da alcol o droghe (16 quelli oggi in cura). E dopo il primo parco per non vedenti ideato ad Arezzo con il Comune, il Garden Club e l’Unione italiana ciechi (grazie a diverse pavimentazioni e cordoli possono girarlo in sicurezza) Andrea Mati si è specializzato nei «Giardini terapeutici», ovvero quelli che grazie a stimoli sensoriali hanno effetti positivi non solo sull’umore ma anche sulla salute. 
«I giardini per i ragazzi down devono essere senza barriere, colorati, gioiosi dove tutti insieme possono curare piante e ortaggi mentre per gli autistici bisogna pensare a nicchie verdi dove si sentano più protetti». Non solo farmaci. Oltre i viali del vivaio mi mostra il giardino Alzheimer, esatta copia di quello che ha creato con il celebre geriatra Giulio Masotti al Centro diurno di Monteoliveto. Vialetti bordati da aromatiche, il profumo dell’olea fragrans, il suono dell’acqua della fontana, le panchine ergonomiche. Sogno città e ospedali con questi giardini al posto di certe insulse rotonde e aiuole.

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Chiara Beria

di Argentine


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Le scorciatoie inaccettabili sulla corruzione ( Onida)

LA STAMPA

Cultura


La criminalità organizzata di «stampo mafioso», che nel nostro Paese ha una lunga storia purtroppo tutt’altro che esaurita, 
richiede certamente, per essere combattuta efficacemente, speciali capacità e abilità investigative e valutative, e può richiedere anche, in parte, norme speciali. Lo stesso è a dirsi, con diversi contesti e diversi problemi, per la criminalità terroristica. Su entrambi questi terreni l’Italia e le sue istituzioni - Parlamento, magistratura e forze dell’ordine - hanno maturato esperienze significative e messo a punto strumenti ad hoc (si pensi solo alla Procura nazionale e alle Procure distrettuali antimafia e antiterrorismo).

Ciò non significa però che possano venir meno o attenuarsi le esigenze di rispetto dei principi costituzionali fondamentali che governano e devono governare, in uno Stato democratico, ogni intervento di repressione e di prevenzione della criminalità. I principi di stretta legalità dei reati e delle pene, di presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, di irretroattività delle norme punitive, di umanità e finalità rieducativa della pena, di ragionevolezza e adeguatezza delle misure cautelari, di garanzia del contraddittorio e del diritto di difesa, di rispetto, sempre, della dignità umana, sono caposaldi irrinunciabili di civiltà giuridica, a cui lo Stato democratico non può mai rinunciare nemmeno in nome di una qualsiasi «emergenza». 

Una sentenza del 2004 della Corte Suprema israeliana, redatta dal suo Presidente Aharon Barak, si esprime sul punto con queste memorabili parole: «Questo è il destino di una democrazia - essa non considera come accettabili tutti i mezzi, e le vie seguite dai suoi nemici non sono sempre aperte davanti ad essa: Una democrazia deve talvolta combattere con una mano legata dietro la schiena. Tuttavia la democrazia prevale. Il principio di legalità (rule of law) e le libertà individuali costituiscono un aspetto importante della sua sicurezza. Alla fine del giorno, essi rafforzano il suo spirito e questa forza le consente di superare le sue difficoltà».

Non pare superfluo questo richiamo nel momento in cui si discute di nuove misure per combattere la criminalità. Penso alle norme modificative del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, che in particolare estendono le misure di prevenzione patrimoniale (sequestro dei beni e confisca), fra l’altro, al caso di indiziati di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, come il peculato, la corruzione e la concussione. Si badi bene, semplicemente «indiziati»: dunque non è necessario che sia accertato il reato con la relativa condanna, e nemmeno che sussistano i presupposti che consentono l’adozione di misure cautelari patrimoniali.

Ora, qual è il senso delle misure di prevenzione? Dovrebbe essere quello di tenere sotto controllo più da vicino le attività di chi sia seriamente sospettato di essere contiguo a «giri» criminali, prevenendo appunto lo sviluppo o la diffusione di attività delittuose. Ma sequestrare e confiscare i beni di chi sia indiziato di delitti per i quali non è, o non è ancora, perseguito penalmente, e al di fuori del quadro delle misure cautelari previste dall’ordinamento, significa in realtà anticipare una pena a chi non è ancora nemmeno sotto processo perché mancano, o mancano ancora, le prove sufficienti per il processo medesimo. Il rischio insomma è di un utilizzo strumentale delle misure di prevenzione là dove non si riesce a intervenire con il processo e la condanna. Come si è espressa significativamente, in un atto giudiziario, una Procura nel proporre appunto l’applicazione di una misura di prevenzione personale, «il diritto penale come extrema ratio, le difficoltà probatorie» (imposte dalla giurisprudenza di Cassazione che ha tracciato i limiti di configurabilità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa), «e la varietà delle forme attraverso cui si esprime la contiguità alla mafia hanno portato a rivitalizzare la tematica delle misure di prevenzione», per colpire ogni comportamento che, pur non configurando un reato, venga ritenuto «funzionale agli interessi dei poteri criminali e costituisca una sorta di terreno favorevole permeato di cultura mafiosa», pervenendo così ad una «vera e propria mutazione genetica delle misure di prevenzione»,

Ora il legislatore ha voluto estendere l’applicabilità del sistema delle misure di prevenzione patrimoniali al campo dei delitti di corruzione amministrativa. Ma questo rischia di rivelarsi un terreno vasto e scivoloso in cui, muovendo dal sospetto dell’esistenza di diffuse pratiche corruttive e di una «cultura mafiosa» nelle amministrazioni e intorno ad esse (che magari esiste, ma va appunto combattuta, oltre che con la vigilanza all’interno, con gli strumenti della cultura piuttosto che con quelli del diritto penale), si brandisca l’arma delle misure di prevenzione per colpire dove non si è in grado di intervenire con gli accertamenti processuali e con le relative condanne. 

Il rischio di incostituzionalità delle norme o della loro applicazione è palese, come quello di esporre il Paese a nuove condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Un sequestro di beni può bene essere necessario anche in via cautelare, ma sulla base di un procedimento che miri all’accertamento del reato. Un sequestro e addirittura una confisca di beni che si collochino al di fuori dell’indagine e del processo diretti ad accertare e punire un reato rappresentano invece una indebita applicazione di una «pena alternativa» al di fuori del principio di legalità e delle regole del processo.  Prevenire la corruzione è necessario, oltre che reprimerla. Ma non può voler dire lasciare campo libero alla cultura del sospetto e allentare le garanzie essenziali della persona. Nel campo della corruzione politico-amministrativa, prevenire significa anzitutto eliminare o almeno ridurre l’oscurità della normativa, che si traduce sia in uno spazio aggiuntivo e indebito di discrezionalità, sia in una minaccia permanente sul capo degli amministratori; ridurre i tempi e potenziare la trasparenza dei processi decisionali e la conoscibilità degli atti interni; costruire e diffondere la cultura del risultato in luogo di quella dell’adempimento e del cavillo; accrescere le motivazioni sane di chi è chiamato a decidere piuttosto che gravarlo di sempre nuove forme o nuove minacce di responsabilità giuridica; avere il coraggio di intervenire drasticamente dal punto di vista organizzativo, facendo pulizia, dove si accertano cedimenti alle varie forme di corruzione.

La ricerca di «scorciatoie», attraverso la espansione indebita delle misure di prevenzione, non è invece accettabile.

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Valerio Onida*


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Gentiloni: “Web tax, andiamo avanti solo con chi è d’accordo”

LA STAMPA

Economia

Tiene l’asse con Macron. Juncker: no alle due velocità


Non ci sono soltanto le difficoltà legate al post-voto tedesco a frenare lo slancio europeo. La due giorni di Tallinn ha confermato ancora una volta che le diverse posizioni tra gli Stati - spesso inconciliabili - restano il principale ostacolo sul cammino della Ue. Prendiamo la cena di giovedì sera, durante le quale sono state fatte «molte proposte, ma senza sostanza». Proposte «che ognuno interpreta come vuole». La lettura senza peli sulla lingua è di Dalia Grybauskaite, la presidente lituana che in queste occasioni sa sempre distinguersi dai colleghi perché non si nasconde mai dietro le frasi di rito che servono solo a ostentare un’unita di facciata. Che fare, dunque, se non si trova una sintesi? Macron e Gentiloni, in grande sintonia nel summit post-Lione, hanno una risposta: serve un’Europa a più velocità. È d’accordo anche Angela Merkel, ma in questa fase non ha alcuna voglia di alzare la voce sul palcoscenico europeo, troppo impegnata a sbrigare le grane interne. Gentiloni ha evocato chiaramente le due velocità parlando della Web Tax. Se non si trova un accordo a 28, bisogna procedere con la cooperazione rafforzata. «Avanti con chi ci sta», e gli altri rimangano pure indietro. Macron ha fatto capire che bisogna insistere in questa direzione, perché il piano presentato da Italia, Francia, Spagna e Germania (tassare il fatturato e non gli utili delle società digitali) è già stato appoggiato ufficialmente da altri sei governi e ulteriori nove sono d’accordo. «Diciannove Paesi sostengono questo progetto» ha detto fiero il capo dell’Eliseo. Teoricamente, potrebbero fare da soli. Ma l’idea non scalda il tavolo dei leader e anche la stessa Spagna preferirebbe coinvolgere tutti. «Noi crediamo sia meglio cercare un accordo con le altre capitali - confida una fonte diplomatica spagnola -, perché il nostro obiettivo è l’armonizzazione». 

Ma al momento resta l’intransigenza di nove Paesi, un terzo dell’Ue. Tra i più battaglieri, Malta, Irlanda e Lussemburgo. «Trattare l’economia digitale in modo diverso da quella tradizionale è sbagliato. Vuol dire non capire che nei prossimi dieci anni tutta l’economia sarà più o meno digitale» spiega il premier maltese Joseph Muscat. Gli fa eco l’irlandese Leo Varadkar: «Se l’Ue vuole essere leader nel digitale, la soluzione non è più regole e più tasse, ma il contrario». L’unanimità è un miraggio. Se ne sono resi conto ieri i leader durante la sessione pomeridiana del vertice. Tanto che il premier estone Juri Ratas, nella conferenza stampa finale, ha evitato di soffermarsi sul tema. Jean-Claude Juncker ha buttato in là la palla, dicendo che della questione «se ne occuperà l’Ecofin» e che la Commissione «farà una proposta l’anno prossimo». Il presidente dell’esecutivo Ue vuole evitare che un gruppo di Paesi parta con la cooperazione rafforzata, lasciando indietro gli altri: «Penso che troveremo un accordo» ha detto a fine giornata, dando però l’impressione di non credere troppo alle sue stesse parole. Anche Tusk predica «unità» e si è impegnato a lavorare in questo senso con una nuova road-map di impegni che presenterà tra un paio di settimane. Si è deciso di intensificare i vertici europei «informali» da intervallare alle riunioni del Consiglio europeo. Ce ne sarà uno a Goteborg a novembre, poi l’Eurosummit di dicembre, uno dedicato ai Balcani a maggio in Bulgaria, uno a Vienna a settembre del 2018 e infine uno in Romania nel marzo del 2019. I leader sperano di rivedere in questi summit il dinamismo tipico della Merkel che a Tallinn è mancato. 

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Marco bresolin


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La rimonta di Silvio (a 81 anni)

LA STAMPA

Italia


SI dice che i gatti hanno sette vite. Ma quante vite politiche ha Berlusconi, che ieri ha festeggiato 81 anni rispondendo a centinaia di telefonate d’auguri e alla fine affacciandosi al cancello della villa di Arcore per salutare i suoi fan? E quanta acqua è passata sotto i ponti dal 27 novembre 2013, quando il Senato lo dichiarò decaduto, a oggi che tutti lo cercano e non c’è combinazione politica, coalizione grande o piccola, che non lo immagini socio, pilastro insostituibile di un fronte per la salvezza del Paese.

Non sarebbe facile spiegarlo a un visitatore straniero capitato di nuovo in questi giorni in Italia, magari dopo esserci passato ai tempi dell’antiberlusconismo, del cosiddetto ventennio in cui l’ex-Cavaliere veniva paragonato addirittura a Mussolini. Eppure è così: Silvio è di nuovo in pista, e la minaccia concreta rappresentata dalla possibile vittoria pentastellata ha fatto sì che il clima attorno a lui non sia mai stato così buono. Sembrava finito, quella mattina del 9 maggio 2014, quando era apparso all’ingresso del centro per anziani non autosufficienti dov’era stato inviato per scontare una pena residua ai servizi sociali. E a questo punto è legittimo chiedersi: come ha fatto a rimontare?

Semplice: Berlusconi ha continuato a essere se stesso, non s’è mosso di un millimetro, ha conservato tutte le sue idee stravaganti e ne ha pensate di nuove (l’ultima, la doppia moneta, per aggirare le posizioni anti-euro dei suoi alleati Salvini e Meloni), ha coltivato le sue amicizie di sempre, senza smettere di stupirsi perché, dopo la rottura del patto del Nazareno con Renzi, a cercarlo erano tutti quelli che nel passato recente erano stati i suoi più fieri avversari, da Franceschini a Bersani, perfino a D’Alema, che ha dimenticato l’offesa ricevuta vent’anni fa, quando il “patto della crostata” siglato a casa di Gianni Letta fu capovolto in poche ore dal repentino ripensamento del leader del centrodestra.

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Marcello

Sorgi


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Le stelle del PD

LA STAMPA

Prima Pagina

Le stelle del Pd

Il Parlamento, che su impulso del Pd tre giorni fa ha approvato il codice Antimafia, su impulso del Pd si appresta a rivedere il codice Antimafia. Pare si siano accorti di un problema: il codice prevede il sequestro preventivo dei beni (aziende, case, auto) agli indagati per corruzione. Non ai condannati, agli indagati. Accidenti che disdetta, su questa legge ci hanno lavorato quattro anni, e gli è cascato l’occhio proprio il giorno dopo averla chiusa. Sono cose che succedono: con quello che c’è da fare uno mica può stare lì ad ascoltare costituzionalisti, giuristi, magistrati, avvocati, che dicevano tutti la stessa cosa - La presunzione di innocenza! La Costituzione! - e per di più tutti assieme. Un caos. Ora non bastano neanche le rassicurazioni della presidente dell’Antimafia, Rosi Bindi: «E’ semplice, chi non riesce a dimostrare che le sue ricchezze sono frutto di attività lecite si vedrà privato di quei beni». Che ci vuole?, basta dimostrarlo. Perché aspettare che si dimostri la tua colpevolezza, come prevede la solita noiosa Costituzione, quando puoi dimostrare tu la tua innocenza? Tanto poi si è sempre in tempo a dar la colpa alle procure. Vabbè, ne approfittiamo per fare i complimenti ai vari Penati, Del Turco, Mastella e gli altri che sono appena stati assolti da accuse di corruzione per avere almeno conservato un tetto sulla testa, visto che il codice ancora non c’era. E per dare una volta ragione ai Cinque stelle: non sono loro che stanno diventando come il Pd, è il Pd che sta diventando come loro.

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Mattia Feltri

venerdì 29 settembre 2017

Il ritorno di Battisti la mente dietro al mixer

LA STAMPA

Spettacoli


Un cofanetto con 60 successi originali rimasterizzati

per i 50 anni di “29 settembre”: “Era un perfezionista del suono”

Franz di Cioccio, Alberto Radius, Geoff Westley e il tecnico del suono Gaetano Ria: quattro big della musica diventati, a vario titolo, testimonial di una delle operazioni discografiche più attese dedicate a Lucio Battisti. Un artista eccezionale, un cantautore capace di musiche meravigliose, sulle quali Giulio Rapetti in arte Mogol cuciva poesie meravigliose, che, per colpa di una scelta discutibile da parte della vedova Grazia Letizia Veronese, i giovani nemmeno conoscono. 

Ai ragazzi nati dopo il 2000, o a chi si è dimenticato di lui, basti sapere che di Battisti esce oggi (a cinquant’anni esatti dalla pubblicazione di 29 settembre, canzone portata al successo dall’Equipe 84 e scritta da Lucio) un cofanetto intitolato Masters per conoscerlo grazie a capolavori senza tempo, da Un’avventura a Cosa succederà alla ragazza

I sessanta brani sono stati rimasterizzati nel formato 24bit/192 khz dai nastri originali e il tutto (sia che si acquisti nel formato da 4 cd, 3 o 8 lp in vinile di pasta colorata) è arricchito da un booklet di 12 o 24 pagine con interviste a Westley, Alessandro Colombini, Di Cioccio e Radius. I prezzi variano: da 24 a 80 euro.

«I nastri originali - spiega il manager della Sony Music Stefano Patara, che ha curato l’opera - sono stati recuperati dai nostri archivi in Germania e restaurati separando i tre strati dei nastri. Li abbiamo “cotti” e digitalizzati. La rimasterizzazione è il primo step di un grande lavoro su Battisti, di cui ripubblicheremo dal prossimo mese tutta la discografia partendo da Una giornata uggiosa e Lucio Battisti, la batteria, il contrabbasso, eccetera e proseguendo per 2 anni con uscite trimestrali».

«Sono stato il primo a suonare la batteria con Lucio - racconta Di Cioccio, che del cantautore ricorda l’attenzione per i dettagli -: spesso, pur di mettere a posto un accordo o un arrangiamento, si scordava pure di mangiare. Ogni sera suonavamo a Milano in club storici come il Santa Tecla o il Pipes per poi andare in studio dove registravamo i nostri pezzi sedendoci in cerchio intorno a lui, che comandava le nostre entrate ritmiche o melodiche solo con cenni del capo». Gaetano Ria, ingegnere del suono per album come Umanamente uomo: il sogno, ricorda: «Lucio in studio non voleva nessuno, nemmeno Mogol (che Radius chiama “l’uomo nero”, ndr). Battisti era strano e curiosissimo nonché fanatico di Totò. Un giorno, mentre stavamo registrando, mi fece chiudere lo studio, lasciammo una registrazione a metà e disse: “Hai la macchina”? Gli risposi di sì e mi pregò di portarlo in un cinema dove davano una rassegna dei primi film di Totò».

Il recupero di questi master però ha fatto riaffiorare anche la questione degli inediti, che esistono ma, per volontà della vedova e del figlio Luca, non si possono toccare. «Sapete quali sono gli impedimenti visto che solo la famiglia può decidere - spiega Patara -. Per quanto riguarda  Masters, invece, ho incontrato Luca: è felice che si sottolinei l’importanza del padre sia come musicista sia come mente dietro al mixer».

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Luca Dondoni


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Ventimiglia " zona franca urbana"

LA STAMPA

Imperia

Ventimiglia e la zona di confine potranno avere importanti sgravi fiscali e previdenziali

La Zona franca urbana è realtà

“Sì” del decreto interministeriale

Previsti fondi per 4,9 milioni. Soddisfazione del sindaco dopo lo smacco del 2009

La città di confine è a tutti gli effetti Zona franca urbana. A sancire il via libera definitivo, che garantirà a tutte le micro e piccole imprese installate sul territorio (tutta Ventimiglia tranne il centro cittadino, Nervia e Latte) e, con un ampliamento degli aventi diritto, anche ai liberi professionisti iscritti al proprio albo, importanti sgravi fiscali e previdenziali, è stato un decreto interministeriale che disciplina lo strumento agevolativo, firmato dalla Corte dei Conti. Si aspetta ora di vederlo nero su bianco, stampato sulla Gazzetta Ufficiale, anche per avere la certezza che i fondi stanziati a copertura degli sgravi siano i 4,9 milioni di euro preventivati dall’amministrazione comunale di Enrico Ioculano. Ma, insomma, questa volta sembra fatta davvero. Con Ventimiglia chiamata a guardare al futuro con molto più ottimismo : «Un grande risultato. Insieme al Porto e alla riconversione del Parco Roja, questo traguardo vale un mandato», ha infine commentato il primo cittadino, sciogliendo le riserve.

A giustificare la prudenza avuta sino ad oggi dall’amministrazione Ioculano, che in realtà rassicurazioni sul proseguimento dell’iter ha sempre continuato ad averle in questi due anni e mezzo di pressing sul governo centrale, è soprattutto lo smacco subito nel 2009. Quando all’individuazione di Ventimiglia quale Comune Zfu, su input del ministro Claudio Scajola, anche per l’ostracismo dell’allora ministro Tremonti, non seguì mai nessun atto per rendere operativa la zona franca. E i fondi furono via via destinati ad altre emergenze. Ma che il clima fosse diverso, al di là della scaramanzia, si è compreso quasi subito. Emerge dall’iter, ricostruito passo passo dal competente dipendente dell’ufficio commercio di Ventimiglia: con il primo incontro al ministero il 23 novembre del 2015 al quale è seguito nell’aprile del 2016 il primo vero atto concreto, con la firma del Ministero dello sviluppo economico. Da allora ad oggi, ci sono stati tre solleciti, visite a Roma, incontri con gli altri Comuni interessati per sbloccare i fondi. E un filo diretto con il viceministro all’Economia Enrico Morando che ha infine fatto a Ventimiglia la telefonata che tutti attendevano e annunciato il via libera della Corte dei Conti. «Sono stati due anni e mezzo di duro lavoro, di contatti con il ministro Padoan per sollecitare i decreti attuativi e con il viceministro Morando per sbloccare le somme stanziate per l’intervento. Lo strumento della Zfu contribuirà in maniera rilevante al rilancio dell’economia del nostro Comune, è un progetto che seguo dal primo giorno del mio insediamento e l’ho sempre considero prioritario per lo sviluppo del nostro territorio», ha ribadito ieri il sindaco Ioculano.

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patrizia mazzarello


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Riviera e Costa Azzurra unite dalle piste ciclabili



Imperia

Progetto da 2 milioni e mezzo con fondi europei



Imperia


Progetto da 2 milioni e mezzo con fondi europei

Riviera e Costa Azzurra

unite dalle piste ciclabili

Con «Edu – mob», progetto di educazione alla mobilità sostenibile presentato ieri a Mentone e finanziato attraverso i progetti europei Interreg Alcotra, decolla l’ipotesi di una via pedonale e ciclabile senza frontiere. Ad oggi, grazie a 2.550.000 euro di finanziamento, non si ipotizza un’unica ciclabile italo francese, ma si punterà su una serie di brevi tratti di pista ciclabile nei singoli Comuni di Ventimiglia, Vallecrosia, Bordighera e dei centri di Mandelieu, Villeneuve Loubet e Mentone. Il tutto nell’ambito di una campagna di sensibilizzazione verso una mobilità sostenibile nei confronti di bambini e ragazzi per un radicale cambio di rotta. 

A spiegare la filosofia, dopo l’intervento del padrone di casa, il sindaco di Mentone Jean Claude Guibal, convinto sostenitore dell’accordo transfrontaliero tra Italia e Francia, Liguria e Dipartimento delle Alpi Marittime, è stato l’assessore regionale Edoardo Rixi: «Lo scopo è unire le due Riviere, rendere usufruibile ad un certo tipo di turismo questa parte di Mediterraneo. Crediamo nello sviluppo coordinato di queste realtà e nel confine come opportunità e non solo come ostacolo», ha sottolineato. Mentre il collega della giunta regionale Giampedrone, ha rimarcato l’aspetto strutturale del progetto: «Bello parlare di turismo sostenibile ed è bello farlo con un progetto che porta avanti anche infrastrutture».

Grazie ai finanziamenti Ventimiglia potrà realizzare un importante piano del traffico (propedeutico anche a altri progetti) e realizzare una pista ciclabile che collegandosi all’attuale, sulla passeggiata a mare, arriverà sino alla zona del centro; Vallecrosia prolungherà la sua pista sino al Casablanca e in futuro la porterà al confine con Camporosso, Bordighera collegherà il tratto centrale della passeggiata alle attuali ciclabili.

« Il Nord Europa lo ha fatto 20 anni fa, non dobbiamo avere paura di scelte radicali», ha esordito Giacomo Pallanca, sindaco di Bordighera. «Noi ci crediamo, abbiamo già il progetto pronto», ha ribadito Giordano di Vallecrosia. Il quale evidenzia, però, il problema dei parcheggi: «Per fare la ciclabile occorre individuare altri posti per le auto: auspichiamo la Regione ci dia una mano». All’ottenimento del progetto Alcotra, Enrico Ioculano, sindaco di Ventimiglia ha partecipato attivamente, come consigliere provinciale: «Sono soddisfatto e lo dico avendoci lavorato concretamente. Nel nostro caso il progetto s’inserisce su interventi già sul campo: la pista ciclabile con Camporosso, il progetto del bus gratuito per le frazioni per chi ha più di 65 anni, i fondi per l’acquisto delle bici elettriche».

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Con «Edu – mob», progetto di educazione alla mobilità sostenibile presentato ieri a Mentone e finanziato attraverso i progetti europei Interreg Alcotra, decolla l’ipotesi di una via pedonale e ciclabile senza frontiere. Ad oggi, grazie a 2.550.000 euro di finanziamento, non si ipotizza un’unica ciclabile italo francese, ma si punterà su una serie di brevi tratti di pista ciclabile nei singoli Comuni di Ventimiglia, Vallecrosia, Bordighera e dei centri di Mandelieu, Villeneuve Loubet e Mentone. Il tutto nell’ambito di una campagna di sensibilizzazione verso una mobilità sostenibile nei confronti di bambini e ragazzi per un radicale cambio di rotta. 

A spiegare la filosofia, dopo l’intervento del padrone di casa, il sindaco di Mentone Jean Claude Guibal, convinto sostenitore dell’accordo transfrontaliero tra Italia e Francia, Liguria e Dipartimento delle Alpi Marittime, è stato l’assessore regionale Edoardo Rixi: «Lo scopo è unire le due Riviere, rendere usufruibile ad un certo tipo di turismo questa parte di Mediterraneo. Crediamo nello sviluppo coordinato di queste realtà e nel confine come opportunità e non solo come ostacolo», ha sottolineato. Mentre il collega della giunta regionale Giampedrone, ha rimarcato l’aspetto strutturale del progetto: «Bello parlare di turismo sostenibile ed è bello farlo con un progetto che porta avanti anche infrastrutture».

Grazie ai finanziamenti Ventimiglia potrà realizzare un importante piano del traffico (propedeutico anche a altri progetti) e realizzare una pista ciclabile che collegandosi all’attuale, sulla passeggiata a mare, arriverà sino alla zona del centro; Vallecrosia prolungherà la sua pista sino al Casablanca e in futuro la porterà al confine con Camporosso, Bordighera collegherà il tratto centrale della passeggiata alle attuali ciclabili.

« Il Nord Europa lo ha fatto 20 anni fa, non dobbiamo avere paura di scelte radicali», ha esordito Giacomo Pallanca, sindaco di Bordighera. «Noi ci crediamo, abbiamo già il progetto pronto», ha ribadito Giordano di Vallecrosia. Il quale evidenzia, però, il problema dei parcheggi: «Per fare la ciclabile occorre individuare altri posti per le auto: auspichiamo la Regione ci dia una mano». All’ottenimento del progetto Alcotra, Enrico Ioculano, sindaco di Ventimiglia ha partecipato attivamente, come consigliere provinciale: «Sono soddisfatto e lo dico avendoci lavorato concretamente. Nel nostro caso il progetto s’inserisce su interventi già sul campo: la pista ciclabile con Camporosso, il progetto del bus gratuito per le frazioni per chi ha più di 65 anni, i fondi per l’acquisto delle bici elettriche».

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Nel Paese che penalizza i genitori

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Cultura

Nel Paese 

che penalizza

i genitori

Cambiamenti profondi attraversano le famiglie, cambiamenti su cui vale la pena interrogarsi. Sapete che le coppie con figli sono ormai una minoranza e rappresentano solo il 33% del totale delle famiglie? Sapete che tra queste, le mamme fino a 34 anni sono pochissime? Sapete che quasi il 60% delle famiglie italiane è formato da 1 o 2 componenti? Famiglie sempre più piccole, quindi, micro-famiglie. Rispetto a 10 anni fa le trasformazioni sono nette. 

Crescono i single di 5,5 punti percentuali, arrivando a 8 milioni, diminuiscono le coppie con figli di 6 punti, aumentano i nuclei monogenitori, cresce la permanenza dei giovani nella famiglia di origine. Le famiglie sono di più e sempre più variegate. Più single, anche tra i giovani e gli adulti; meno coppie coniugate, ma più coppie non coniugate, 1 milione 200 mila, raddoppiate in 10 anni; più madri sole ma anche più padri soli, arrivati a 500 mila, meno coppie con figli e meno figli nelle coppie, con una maggiore presenza di figli unici. Unioni civili in crescita per le coppie dello stesso sesso. Le famiglie assumono profili inediti, le persone si danno nuove strategie, ma quanto realmente queste strategie sono frutto di reali scelte degli individui? Sempre di meno. È in gioco il diritto di scegliere il proprio percorso di vita. 

Come possono uscire i giovani dalla famiglia di origine se il tasso di occupazione di quelli tra 25 e 34 anni ha perso 9 punti? Come possono i giovani avere i figli che desiderano se il loro futuro continua ad essere così incerto? Troppo poco si è fatto per mettere in condizione i giovani di costruirsi una vita indipendente. Troppo poco si è fatto per rimuovere quel clima sociale sfavorevole alla maternità e alla paternità che è stato dominante nel nostro Paese, già da molto prima dell’ultima crisi. Un clima che è il frutto di un’offerta scarsa di servizi sociali per l’infanzia, di un’organizzazione del lavoro rigida, specie nel settore privato, di un part time che cresce solo per le donne che non vogliono farlo e non per chi vuole utilizzarlo per conciliare i tempi di vita, di un lavoro non retribuito ancora schiacciante per la maggior parte delle donne e di una asimmetria nella coppia che si riduce troppo lentamente. Il nostro è un Paese a permanente, cronica, bassa fecondità, dove persino gli immigrati tendono rapidamente ad adottare i nostri modelli riproduttivi. Non possiamo versare lacrime di coccodrillo, non possiamo lamentarci oggi che le famiglie fanno pochi figli, mettendoci a posto la coscienza con misure parziali e temporanee. Dobbiamo dircelo, bisognava intervenire prima e in modo sistematico. Il calo delle nascite prolungato, insieme all’aumento della durata della vita, di cui nessuno si è interessato nonostante gli avvertimenti di demografi e sociologi, ha prodotto un cambiamento della struttura delle famiglie che sarà difficile riconvertire. Dobbiamo ricreare un clima sociale favorevole alla maternità e paternità, rimuovendo tutti gli ostacoli che impediscono di trasformare i desideri in realtà. 

Dobbiamo mettere in condizione tutti di vivere come desiderano, con figli, senza figli, in libera unione, in unione civile, come madri sole, single o in qualunque altro modo. Per scelta, non perché costretti. Cosa significherà per il nostro sistema di welfare una struttura familiare con un numero di componenti così basso? Aumenterà le vulnerabilità delle persone che vivono in piccole famiglie? Riuscirà la rete di aiuti fornita dalle donne e dalle famiglie a dare risposte ai bisogni di cura e assistenza? Già fa fatica ora, sarà ancora più difficile in futuro perché le famiglie cresceranno di numero, con molti più anziani anche non autosufficienti, e chi darà aiuto non potrà più farcela come prima in una situazione così frammentata. Se questa è la diagnosi, non rimandiamo per l’ennesima volta la cura. Non basteranno più le nonne a risolvere i problemi. E se non vogliamo che cresca la solitudine e l’emarginazione dobbiamo, una volta per tutte, cominciare ad agire ora, per rifondare il sistema di welfare. Coinvolgere la società civile è fondamentale. Nessuno escluso. 

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Linda Laura Sabbadini


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Sorgi. L'amara verità capitolina

LA STAMPA

Cultura

L’amara

verità

capitolina

Se il Movimento 5 Stelle ha deciso ancora una volta - Grillo, garante, in testa a tutti - di far quadrato attorno a Virginia Raggi, per la quale ieri la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio con l’accusa di falso, è per una serie di ragioni, non tutte perfettamente logiche, ma di sicuro condivise dal popolo stellato.

La prima è che la situazione processuale della sindaca di Roma si è alleggerita: sono cadute le accuse di abuso di ufficio per le nomine di Salvatore Romeo a capo della segreteria e di Renato Marra (fratello di Raffaele, attualmente agli arresti domiciliari per corruzione) a dirigente del dipartimento turismo. Raggi, al tempo di queste scelte circondata da una sorta di cerchio magico dal quale si è (o è stata dal Movimento) rapidamente liberata, difficilmente riuscirà a sfuggire alla condanna in primo grado per falso, dato che mentì all’Anticorruzione, pensando di salvarsi dalla stretta fatale dei suoi loschi collaboratori di allora e dicendo di aver deciso tutto da sola, quando invece intercettazioni telefoniche e documenti firmati dimostrano che non andò così.

Molto probabilmente, quando i giudici emetteranno la loro sentenza (che segnerà anche un primo momento di rottura tra il Movimento e la magistratura), la sindaca sarà costretta ad autosospendersi come ha fatto il suo collega Cinque Stelle, primo cittadino di Bagheria, ma non per questo M5S mollerà la presa sul Campidoglio romano. Anzi, per come sono fatti gli elettori del Movimento, e per come s’è visto di recente a Rimini, la Raggi continuerà ad essere un’icona stellata quasi dello stesso livello di Di Maio e Di Battista, e saranno in molti a credere (glielo faranno credere) che contro di lei sia stata ordita una macchinazione quando era stata appena eletta, approfittando della sua iniziale inesperienza.

In altre parole, rispetto alla Raggi, Grillo, Casaleggio e Di Maio (il quale, inquisito a sua volta, si tiene a debita distanza da quella che potrebbe rappresentare la prima grana della sua neonata leadership) hanno deciso di comportarsi con un atteggiamento opposto a quello che il Pd renziano ebbe verso il sindaco Marino: defenestrato a costo perfino di far firmare dai consiglieri comunali al cospetto di un notaio l’autoaffondamento dell’intero Campidoglio, con il bel risultato di consegnarlo in blocco ai Cinque Stelle, che mai e poi mai avrebbero sperato di conquistare il governo della Capitale.

Naturalmente tutto ciò avviene in base a un mediocre e progressivo aggiustamento del codice etico del Movimento: dal semplice avviso di garanzia, l’argine è slittato via via al rinvio a giudizio e adesso alla condanna in primo grado: alla quale, c’è da giurarci, in qualche modo Raggi sopravviverà politicamente, continuando a galleggiare sullo stato di degrado in cui Roma è caduta. Un decadimento insopportabile, certo non tutta responsabilità sua, dato che le due precedenti amministrazioni avevano alzato bandiera bianca di fronte agli enormi e ormai quasi irrisolvibili problemi di Roma; ma aggravato dall’evidente rinuncia della sindaca a farci i conti e a cercare soluzioni, essendo preferibile, per lei e i suoi sostenitori, denunciare quotidianamente il complotto che impedirebbe alla nuova amministrazione di lavorare.

La verità, amara quanto si vuole, ma altrettanto inconfutabile e ben chiara ai Cinque Stelle, è che Roma diventa, sì, ogni giorno più invivibile, ma il ricordo della corruzione recente e l’impressione lasciata, al di là della conclusione, dal processo «Mafia capitale», sono ancora molto forti. E i romani, disillusi per natura e per la storia millenaria che hanno alle spalle, preferiscono tenersi la Raggi, piuttosto che veder tornare in Campidoglio un politico di professione, di centrosinistra o centrodestra.

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Marcello Sorgi


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A pranzo dalle massaie del paese

LA STAMPA

Italia

Sardegna

Tutte le case

trasformate

in ristoranti

per turisti 

L’idea è quella di ospitare tanti turisti senza costruire né un albergo né un ristorante. Per tutti quelli che arrivano a Nughedu Santa Vittoria, piccolo paese della provincia di Oristano, c’è posto nelle case del centro. Le famiglie aprono le porte e questa diventa di per sé un’attrazione. L’idea di andare a pranzo dalle massaie, e scoprire le antiche ricette, ha già incuriosito tanti stranieri, che infatti hanno scelto di fermarsi qui, sulle rive de lago Omodeo. «Per il momento 15 famiglie aderiscono al nostro progetto - dice il giovane sindaco Francesco Mura - Il nostro sogno è quello di un turismo morbido che si adatta al territorio e alla vita del paese». Per ora Nughedu Santa Vittoria è diventato un grande ristorante, ma la prossima tappa è quella di offrire ai turisti anche un letto, ospitando i vacanzieri tra le case. «L’obiettivo è fermare lo spopolamento - dice il sindaco - Se creiamo qui posti di lavoro che dureranno nel tempo i giovani non saranno costretti a fuggire». Ma le idee sono anche altre e per questo il paese del Barigadu ha ospitato un campus universitario per progettare nuove strategie contro la fuga dai piccoli paesi. «Gli ambiti possibili sono quattro - spiega il coordinatore Matteo Lecis Cocco Ortu -. L’agricoltura, il riuso del patrimonio architettonico, le cooperative di comunità e il turismo diffuso». [N. P]

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Il miracolo di Ostana

LA STAMPA

Italia

Piemonte

Il miracolo

di Ostana:

più residenti

con la cultura

Alla fine della guerra, e negli anni del boom economico, ad Ostana erano rimasti in cinque. Esattamente cinque. La popolazione era stata decimata nelle battaglie e quelli che non erano stati spediti al fronte avevano preferito emigrare. Da questo piccolo borgo di montagna, nel cuore della provincia di Cuneo, per trovare un lavoro nelle fabbriche di Torino. Da quarant’anni non nascevano bambini, ma dopo gli ultimi tre nati, da queste parti si può davvero gridare al miracolo. Gli abitanti sono diventati 50 e a vivacizzare la vita (e l’economia) di questo centro di montagna sono giunti molti turisti. «Abbiamo un agriturismo, un ristorante, un albergo diffuso, un negozio e ora una ragazza ha avviato un progetto per la coltivazione di ortaggi e piante officinali - dice con soddisfazione Giacomo Lombardo, sindaco di Ostana da 23 anni -. Per ridare vivacità al nostro paese abbiamo puntato sul turismo. Turismo ambientale e culturale. La nostra scommessa sta dando buoni frutti». A Ostana ogni domenica si riversano centinaia di escursionisti e per gli imprenditori della zona è sempre festa. «Questi progetti funzionano e la prova è che l’età media della popolazione supera di poco i 30 anni - aggiunge il sindaco -. Ma ci sarebbe bisogno di potenziare le infrastrutture. Internet qui arriva con lentezza, se nevica o se c’è troppo vento restiamo senza energia elettrica». [N. P.]

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Gli "onesti " contaballe al "potere"...

LA STAMPA

Italia

L’ultima capriola M5S

L’esultanza di Grillo

incrina il mito dell’onestà

I vertici cantano vittoria: archiviato il reato più grave

Dopo leadership e streaming, la metamorfosi è compiuta

Viene in mente Isaac Asimov, per il quale la disumanità del computer risiede, una volta programmato e messo in funzione, nella sua perfetta onestà. Grazie al cielo Virginia Raggi non è un computer, lo si nota a occhio nudo, nessuno del Movimento lo è, e non per questioni di onesta e disonestà, stabilite ruvidamente codice alla mano. I codici non dicono tutto, neanche quello penale. E comunque Raggi non è nemmeno arrivata a processo, forse non ci arriverà proprio, deciderà un gip, e semmai poi ci saranno tre gradi di giudizio e per un reato, se tale è, di poca rilevanza: falso ideologico. 

La perfetta onestà dei Cinque Stelle si incrina invece nell’esultanza di Beppe Grillo per l’archiviazione del reato più grave, l’abuso d’ufficio, che è più grave soltanto nella realtà on demand del blog, poiché l’abuso d’ufficio prevede pene più basse del falso ideologico. 

La perfetta onestà dei Cinque Stelle si incrina nel tweet del capo, Luigi Di Maio, che annuncia l’archiviazione delle accuse per cui «la stampa ci ha infangato», immemore delle dieci, cento volte che lui e i suoi hanno sventolato in aula di Montecitorio le pagine di giornale con le inchieste sugli altri, addotte alla richiesta di dimissioni. Oltre che immemore, naturalmente, delle accuse che archiviate ancora non sono, come un passacarte di Forza Italia o del Pd. 

Inconsapevole, soprattutto, di aver raggiunto una certa solidità politica, una solidità antica, quella per cui la consigliera Cristina Grancio è stata sospesa perché contraria all’edificazione dello stadio di Roma.

Succede a tutti, da millenni: l’azione distrugge l’utopia. Raggi (ed è giusto così) resta al suo posto nonostante una richiesta di rinvio a giudizio, Grancio viene cacciata per dissenso (poi reintegrata il giorno prima del processo per il ricorso), secondo il santissimo metro della politica e non della magistratura, quello usato da Matteo Renzi per salvare Maria Elena Boschi, che era più utile al governo sebbene indagata, e per sommergere Maurizio Lupi, che da indagato era dannoso al governo. «Se un sindaco ha un avviso di garanzia per abuso d’ufficio deve stare fermo un giro», diceva Di Maio giusto un paio d’anni fa, prima di rendersi conto che un sindaco di media o grande città può uscire indenne da una consiliatura soltanto se gli altri sono distratti, tante e tanto complesse sono le regole cui è chiamato ad attenersi, per non dire delle tentazioni. Non basta proclamare onestà, quasi mai. Ora il problema è che ne va di mezzo la purezza della razza, e non lo si intuisce, o non lo si confessa. Quattro anni fa Beppe Grillo ci irrideva per la nostra incapacità di comprendere l’assenza di un leader, diceva che quando lo chiamavano i giornalisti per parlare col leader del Movimento, lui gli passava il figlio Ciro. Il leader non c’era perché a comandare è la rete dei cittadini attraverso il web, diceva, ed è questa la rivoluzione somma, e inafferrabile per menti polverose come le nostre. Poi adesso hanno eletto un leader, Di Maio appunto, con le primarie on line. Quattro anni fa non c’era il candidato premier (lo era Grillo, ma solo formalmente) perché il premier sarebbe stato l’ologramma della volontà popolare, un portavoce, uno qualsiasi, e adesso hanno eletto un candidato premier, sempre Di Maio, sempre con le primarie online. Ci sono stati direttori, nazionali e locali, ora c’è una gerarchia, un designato alla premiership, un serio abbozzo delle strutture novecentesche e marcescenti che forse marcescenti non sono, ma indispensabili. 

Si procede lungo questo sentiero che collega l’a priori con l’a posteriori, che collega il mondo perfetto progettato attraverso regole ferree e il mondo in cui ci si imbatte, e in cui le regole hanno bisogno di elasticità. Si organizzano le primarie del sindaco di Genova e siccome vince la candidata sgradita la si fa fuori, in onore di quella elasticità lì, necessaria anche ai movimenti più stentorei, in cui si ingoia tutto nella onestissima certezza che i predecessori facevano porcate a fin di male, e ora le si fanno ancora, eccome, ma a fin di bene, come cedimenti inevitabili al raggiungimento del celeste obiettivo, e unica possibile risposta all’accerchiamento dei nemici: eccola la drastica differenza, una pretesa differenza antropologica, stravista, fallimentare, già raccontata su tutti i libri di storia. Una citazione cara a Giulio Tremonti: si fa la figura del selvaggio di Kant che pensa che il sole sia sorto perché lui si è svegliato.

Ricorderete la breve leggenda dello streaming, l’apertura del palazzo come una scatola di tonno, le pareti di vetro, l’animo incontaminato esibito al popolo negli incontri con Pier Luigi Bersani, Enrico Letta e Matteo Renzi, a cui veniva così impedito ogni losco infingimento, e poi lo streaming è stato rapidamente dimenticato, quella specie di balletto con copione, dunque fintissimo, perché la politica ha bisogno delle sue ore grigie, dei suoi notturni segreti, dei compromessi che sono sempre al ribasso sennò compromessi non sono: si decide dentro le stanze dell’Hotel Forum, Roma, o nella villa di Grillo, Toscana, o alla Casaleggio, Milano, altro che streaming, se Dio vuole. Ricorderete il divieto dogmatico di mettere piede nei paludosi studi televisivi, luoghi di corruzione intellettuale, dove manipolatori di regime avrebbero ridotto il cristallino Cinque Stelle alla condizione fangosa degli altri, e adesso vanno tutti in tv, se possibile senza confronto, a esercitare il lusso del monologo. In fondo ci sarebbe niente da dire se i ragazzi di Beppe si lasciassero attrarre dal dubbio che la rivoluzione dell’onestà è un bel gioco da tavolo, e sta alla vita come il risiko sta alla guerra, ché poi tocca cambiare le regole, tocca ricorrere all’eccezione, una via l’altra, tocca concedere a sé attenuanti o assoluzioni piene negate ai cattivi ma, come si diceva all’inizio, si vede tutto a occhio nudo: il mondo è pieno di persone oneste, diceva uno intelligente e spiritoso, e si riconoscono dal fatto che compiono le cattive azioni con più goffaggine.

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mattia feltri


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giovedì 28 settembre 2017

Italia, qui l’inquinamento uccide di più

LA STAMPA

Italia


La classifica europea mette sotto accusa le nostre città. Concentrazioni record di polveri sottili Pm 2,5

Ma non sono solo i veicoli a rendere irrespirabile l’aria: forte impatto anche dal riscaldamento a pellet

La notizia è che l’aria nelle città è migliorata negli ultimi anni, ma nonostante le nuove regole l’Italia primeggia nella triste classifica europea dei morti per inquinamento.

Come spiega il Report sulla qualità dell’aria che sarà presentato domani, realizzato dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile con Enea e Ferrovie, l’Italia con oltre 90.000 morti premature batte i grandi paesi europei. Parliamo di 1500 decessi per milione di abitanti, contro i 1100 in Germania, gli 800 della Francia e della Gran Bretagna, e i 600 della Spagna.

La situazione dell’aria resta molto critica in tante parti d’Italia, indica questo importante rapporto. Si sa che l’aria peggiore c’è nella Valle Padana, ma problemi seri ci sono anche nelle aree metropolitane di Roma e Napoli, a Firenze, in Puglia a cominciare da Taranto, e sulla costa sud est della Sicilia. I responsabili? C’è il traffico automobilistico, come si può facilmente immaginare, a partire dai motori diesel. Ma con qualche sorpresa, oltre all’industria e al riscaldamento residenziale, ormai pesano in modo significativo anche il riscaldamento a biomasse legnose, tradizionali o a pellet (soprattutto a Milano e Firenze), e l’agricoltura, che genera molta ammoniaca. 

L’aria inquinata è un problema continentale: secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente in Europa ogni anno si registrano oltre 500.000 morti premature a causa dell’inquinamento atmosferico, circa 20 volte il numero di vittime per incidenti stradali. Per la Commissione Ue, i costi connessi agli impatti sulla salute dell’inquinamento atmosferico pesano tra il 2 e il 6% del Pil europeo. Ma l’Italia va peggio: siamo in procedura di infrazione sia per il particolato che per il biossido di azoto. Per le Pm2,5, le polveri sottili più fini, segniamo valori di concentrazione record, così come per l’ozono. E quel che conta, non stiamo migliorando abbastanza: di questo passo non rispetteremo i target fissati per il 2030 dalla nuova direttiva europea sugli inquinanti atmosferici. 

Il traffico

Come detto, il traffico stradale è il maggior responsabile dell’inquinamento, soprattutto per ossidi di azoto e particolato. Ma i dati rivelano che ci sono altre sorgenti di inquinamento, finora poco o nulla considerate, come la biomassa legnosa. Tra il 1990 e il 2015 la quota del legno per i consumi energetici nel settore residenziale è passata dal 13 al 25%. Secondo l’Ispra, la combustione di biomasse è responsabile del 99% delle emissioni di particolato del settore residenziale. Le tecnologie «tradizionali» (caminetti aperti e stufe manuali), che rappresentavano il 74% degli impianti in Italia nel 2012, sono stati responsabili del 90% delle emissioni di particolato del settore, contro il 9% di emissioni imputabili alle tecnologie «avanzate» (stufe a pellet, caminetti chiusi e stufe a ricarica automatica. Resta il fatto che a Milano la combustione del legno, specie in impianti a bassa efficienza, vale addirittura il 20% delle Pm10 totali. Scopriamo poi il ruolo dell’«inquinamento extraurbano»: la produzione agricola (con i fertilizzanti) e la zootecnia. E infine, c’è l’industria, la generazione elettrica e lo smaltimento dei rifiuti: le innovazioni tecnologiche non hanno risolto.

Il rapporto propone un decalogo di interventi per affrontare il problema. Varare una strategia nazionale per la qualità dell’aria, ridurre le auto private in città, inserire gli obiettivi su clima e inquinamento nelle politiche energetiche, dare più risorse per il trasporto pubblico condiviso, finanziare la ricerca e il monitoraggio, migliorare le performances ambientali dei mezzi di trasporto, riqualificare edifici pubblici e privati, limitare le biomasse per il riscaldamento domestico, controllare le emissioni dell’agricoltura, migliorare le tecnologie nell’industria. 

Proposte serie, che però non sembrano nei piani del governo. Edo Ronchi, già ministro dell’Ambiente e presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, è preoccupato. «Onestamente per il momento vedo poco impegno - spiega - nonostante qualche visibile miglioramento, mi pare che Comuni e territori siano lasciati da soli ad affrontare un problema che richiederebbe ben altri interventi». E gli accordi tra ministero dell’Ambiente e Regioni, come quello firmato da Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna? «Certamente sono utili - commenta Ronchi - ma solo a livello di cornice, per gli obiettivi che pongono. Quanto invece alle misure in grado di avere un impatto reale, hanno effetti davvero limitati». 

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Roberto Giovannini


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