ebook di Fulvio Romano

giovedì 9 novembre 2017

Il dibattito sui candidati premier non è fasullo ) Sorgi)

LA STAMPA

Italia


Il dibattito sui candidati premier (servono o no?), che divide il centrosinistra, e in parte anche il centrodestra, è fondato su una mezza verità che rischia di diventare una falsità intera. Si dice: non serve scegliere un candidato premier nell’era del ritorno al proporzionale, perché il presidente del Consiglio sarà la risultante di una trattativa tra i partiti che si consumerà tra Quirinale e Parlamento.

Tutto vero, per carità. Ma a parte che un terzo dei parlamentari saranno eletti in collegi uninominali, dove per vincere servirà avere una coalizione alle spalle, ciò che non è vero è che all’epoca della Prima Repubblica, quando regnava il proporzionale puro, i partiti rinunciassero a proporre candidati per Palazzo Chigi. De Gasperi lo fu per primo fin dal 1948. E in tempi più recenti, dopo il delitto Moro, anche leader di partiti più piccoli, come La Malfa e Saragat, ricevettero l’incarico, sia pure per affiancar Andreotti. 

De Mita e Craxi fecero più di una campagna elettorale chiedendo ai loro elettori di spingerli verso la guida del governo. Il segretario socialista, nel 1983, si propose per un governo di tre anni, che poi ne durò quattro. Il leader democristiano, nel 1987, fece lo stesso, e anche se dovette aspettare un anno per realizzare il proprio obiettivo, alla fine ci riuscì. E se durò poco, fu perchè nel frattempo a farlo fuori ci pensarono i suoi amici democristiani. Spadolini, ricandidandosi premier dopo i suoi due governi durati nel complesso diciotto mesi, tra il 1981 e il 1982, portò il Partito Repubblicano, che in genere galleggiava attorno all’1,5 per cento, al risultato-record del 5. E in fondo anche gli elettori del Pci, che in quegli anni restò quasi sempre all’opposizione, sognavano un governo Berlinguer.

Questo per dire, a differenza da quanto stanno sostenendo diversi esponenti del Pd, e non solo, che un partito, anche in regime proporzionale quando chiede voti per se stesso, e non anche per gli alleati come all’epoca del maggioritario, difficilmente può rinunciare ad avere un leader spendibile come capo del governo, un uomo-simbolo che funzioni da punto di riferimento, un comunicatore che riassuma in sé l’idea che l’elettorato s’è fatto delle capacità e dei programmi di una determinata forza politica. Per questo, è difficile che Renzi rinunci al ruolo che s’è guadagnato al congresso e nelle primarie. E chiederglielo significa girare attorno a un problema che è politico, e non di persone.

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Marcello

Sorgi


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